Nel contesto delle attuali generazioni artistiche, la ricerca di Alessandro Scalvini costituisce un unicum di grande interesse, assolutamente innovativo per il concetto che, saldo e inappuntabile, si pone all’origine di ogni sua opera il cui risultato formale, sia detto sin da ora, costituisce solo il punto finale di un lungo e appassionante scavo nella sua materia, nel suo DNA potremmo dire.
D’altra parte, a guardarla da una prospettiva ampia e attenta ai corsi e ai ricorsi della storia, alle cosiddette eredità spirituali e alle sottili e spesso sotterranee affinità elettive tra artisti anche molto lontani cronologicamente, la ricerca di Scalvini è direttamente figlia dell’oltrepassamento della superficie pittorica che per primo Lucio Fontana seppe intendere e agire. Un andare oltre la tela, ora con buchi ora con tagli, avvenuto quale passo finale di una lunga attesa meditativa attorno e sull’arte – e infatti non a caso i titoli di molti lavori fontaniani sono Concetti Spaziali-Attese; ma interessante pensare anche alle relazioni tra il giovane artista attuale e la generazione venuta dopo Fontana, quella dei giovani esponenti della pittura-oggetto che il taglio seppero ampliarlo, curvarlo, ritmarlo, esplorarlo in tutte le sue potenzialità, alla ricerca di un rapporto con l’ambiente e con lo spettatore, aiutati dalle importanti scoperte tecniche che si profilavano all’inizio degli anni ’60.
Tali affinità comuni costituiscono tuttavia solo un iniziale punto di analisi attorno alla ricerca di Alessandro Scalvini, artista consapevole, raffinato, meticolosamente attento al processo creativo di ogni sua opera. Da un cauto e appassionato procedere, infatti, germinerà la forma, l’immagine affiorante sulla superficie, commovente dichiarazione che gli artisti di oggi continuano ad interrogarsi sui problemi ontologici dell’arte, e lo fanno con tutta la poesia di cui sono capaci le loro mani.
Interrogare l’opera è attività quotidiana per Scalvini, cresciuto, parallelamente ai canonici studi d’arte, nello studio di restauro di famiglia, dove ancor oggi lavora. Qui l’apprendimento di tutti i più preziosi segreti per conoscere a fondo le opere della storia lontana e recente, qui l’indescrivibile e quotidiano, sia bene ripeterlo, viaggio nella loro pelle, nelle loro materie mutevoli e capricciose, dalla consistenza di un gesso alla fragilità di un legno alla affascinante trama di una tela.
Un viaggio fatto di soste, di attese, di lotte per la salvaguardia dello stato originario di ogni dipinto, di ogni scultura, di quella decorazione ornamentale e di ciascun segno lasciato sulla materia forgiata dall’uomo nei secoli.
Da questi due percorsi diversi, eppure fraternamente uniti – che si tratti del taglio fontaniano o della risoluzione di uno strappo storico, in entrambi i casi il problema è interrogare la tela che l’immagine ospita e sostiene – viene fuori la ricerca di Alessandro Scalvini, un affascinante viaggio che l’artista consapevolmente intitola Into the canvas.
Dentro, non oltre la tela.
Ogni lavoro infatti nasce a partire da un taglio chirurgicamente studiato per definire una immagine precisa nello spazio della tela. Ma anziché lasciare questa immagine in assenza, Scalvini è mosso dalla volontà di restituire alla superficie la sua dimensione originaria, realizzando l’immagine che andrà a colmare la sezione asportata con tecniche appartenenti al restauro oppure con materiali moderni e innovativi.
Ecco allora la serie di lavori chiamati Into, dove forme galleggianti al centro dell’opera accolgono il gesto pittorico dell’artista, la sottile cascata cromatica, il delicato sovrapporsi e fondersi del colore. Forme stondate, ovali leggermente squadrati, oppure piccole aperture attentamente definite, solcano la tela e dimostrano che l’artista ha voluto gareggiare con essa, provando con la sua ricerca a farla tornare ad uno status non più originario, ma potenziale e in divenire.
Ma che fine fanno le parti asportate del supporto originario, terreno di sfida per l’artista che cerca di eguagliarlo, pareggiandone la presenza materica? Queste sono inserite al retro di ciascuna tela. Testimonianze del’accadimento voluto dall’artista, vengono restituite al collezionista o allo spazio espositivo che saprà apprezzarle, chiedendo di essere custodite, e sviluppando così quel processo di dare-avere che sorregge il mondo dell’arte.
Si trovano dietro la tela, dove ancora non possiamo guardare.
Entrarvi sì, però.
Ilaria Bignotti